Pubblichiamo la prefazione di Vincenzo Bagnoli a I morti di tutte le specie.

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I morti di tutte le specie si impone subito all’attenzione per il grado di maturità stilistica esibito da Silvia Secco. Fin dalla prima lettura colpisce infatti l’alto livello di competenze tecniche messe in gioco: in primo luogo la componente metrico-ritmica e fonosimbolica, molto solida; quindi la capacità di mescolare con equilibrio componenti linguistiche e lessicali che affrancano la scrittura dalle facili maniere, dalle scelte logore, dal “poetese”, e che la rendono invece capace di combinare felicemente linguaggi diversi (il canto, il dialetto, il registro meditativo, il parlato, il romanzo, ecc.); infine la consapevolezza metalinguistica, ossia la capacità di dialogare, anche in chiave ironica, con la tradizione letteraria, con le voci di altri autori (nominati e taciuti) e con le stesse strutture della poesia, producendo al contempo immagini dotate di forte originalità e in grado di confrontarsi con il contemporaneo, realizzando così quell’incontro tra elementi apparentemente inconciliabili – l’elemento eterno e quello transitorio della bellezza – che si chiede alla poesia moderna da Baudelaire in poi. Un confronto fondamentale e soprattutto necessario per rendere la lingua e la poesia resistente alla contaminazione retorica dei mass media e della “società dello spettacolo”.

Nei testi che compongono questa raccolta ricorrono con gradazioni diverse tali risorse, ma colpisce anche la compattezza delle stesse, che dimostra la coerenza del disegno: la raccolta stessa non è infatti accostamento di scritture episodiche, ma elaborata architettura, frutto di misurata ricerca, della quale si apprezza il progetto, assolutamente convincente, sviluppato nel susseguirsi di immagini che delineano un paesaggio di notturni stellati e lunari, una natura lucreziana in cui agiscono implacabili forze oltreumane.

Lo sguardo che attraversa questo paesaggio si posa sull’aspetto fisico, non metafisico, del mondo abbracciando la continuità materica di individui (le “migliaia di occhi dietro i finestrini”), specie, forme, suoli e sostanze (“rovine di ghiaie” e “frane disastrose”), fiumi e maree, passati e presenti, delle forze fisiche nella loro terribilità. Ed è uno sguardo del tutto simile a quello che Leopardi getta sull’universo dalla “schiena” del Vesuvio: è lo sguardo che Hans Blumemberg esemplifica nell’allegoria del “naufragio con spettatore”.

Sul piano puramente formale la scrittura di cui l’autrice dà qui prova mi pare molto interessante per la capacità di usare il linguaggio poetico calibrando in modo attentissimo i propri strumenti retorici nell’affrontare un tema difficile e un denso sottotesto filosofico e letterario. Il risultato è una poesia che sa farsi veramente, come voleva Paul Celan, “meridiano”, luogo invisibile che eppure attraversa il concreto della terra, movimento che si disegna senza sapere se potrà concludersi, e che per incontrare l’Altro sa rinunciare a sé (ossia all’espressione egoistica dell’io) in nome di qualcosa di più grande: l’immaginazione, la risorsa più grande della poesia, con la quale essa può insegnare a vedere e pronunciare, e quindi abitare in modo nuovo, il mondo e le sue parole.

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