Pubblichiamo la nota di lettura di Giuseppe Andrea Liberti a L’indifferenziata.

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Si potrebbe cominciare dalla fine. Dalle ultime pagine di un altro libro, Il cadavere felice (Sartoria Utopia, 2017), che quello che avete tra le mani anticipa e prepara. Già lì emergeva un’esigenza di modellare la parola fino a renderla impalpabile ma concretissima: «le parole sono pietre. // tu scheggiale // fino a che non diventano sabbia, polvere. // fine». Un lavoro di cesello, quello a cui invitava Viola Amarelli, che rendesse il verbo un materiale in grado di infiltrarsi nelle crepe del nostro tempo.

C’è poi un altro testo da riesumare, quello effettivamente di chiusura del Cadavere: «“ho perso, ho perso, ho perso” / ma non ricorda più cosa / da vincere ci fosse». È la considerazione finale di un’autrice che, pur facendo parte di una generazione sconfitta, trova nuovi slanci e obiettivi nel fare, nell’agire; un agire in prospettiva, certo, ma a prescindere dalla posta in gioco (e non è forse lontano il Fortini che, al crepuscolo della vita e di un’intera storia di lotte, affermava che la lotta per il comunismo è già il comunismo).

Sono le coordinate entro cui si muove la poesia di Amarelli, poesia scarsamente addomesticabile e anzi incandescente, in cui la dimensione politica non viene taciuta ma discussa con mezzi espressivi non obsoleti, ibridandosi con riferimenti culturali di vastissima provenienza e un substrato filosofico assai ben attrezzato.

Si tratta ora d’immergersi in un nuovo sprofondamento nella parola e nell’immagine, ancora meno pacifico di quello del già perturbante cadavre exquis poc’anzi rievocato. Del resto, ad aprire e chiudere L’indifferenziata sopraggiunge un coro, ad attestare la dimensione tragica del testo. Subito, nella strana invocazione d’apertura, si chiede alle «vilissime sorelle» di proteggere «chi non c’era, / i nostri sbagli», perché anche l’errore del passato, divenendo esperienza, può essere tesaurizzato per accedere a una coscienza superiore, che ulteriori errori possa non evitare ma apprendere a fare propri. Si entra così nella forma del fiato, prima sezione del libro, subito focalizzata sul doppio binario del corpo e del verso.

Se la poesia è suono – e questi versi sono un continuo amalgamarsi di note sillabiche – il fiato ne costituisce l’immagine fisica, la sua materializzazione; la visceralità organica che sfoggia l’autrice («quando si scioglierà il grasso nelle arterie / canteremo i muchi, i fili di sangue / […] si scioglieranno gli insaturi, si spera») cozza con la lingua «crittografata» e con la poesia «stucchevole come il miele o / la nutella», alla quale si contrappongono antidoti quali l’asprezza dello stile e della realtà («un goccio d’aceto a salvamento / ti rimette – concreto – / piedi per terra»), la valorizzazione del suono come produttore di senso, il lavoro di fino sul pensiero e su ciò che può dirlo, simile a una «bisnonna [che] incorniciava / i suoi lavori a punto a croce». Questo fiato è però a sua volta un prodotto del corpo, e così si passa dalla riflessione metapoetica a quella sulla dimensione del corporeo femminile, sulle «noialtre» che inanellano catene di azioni e di attenzioni («lava, disfa, asciuga, spolvera, rimbocca, cucina / […] disinfetta disinfesta / anime, corpi, arti, orgogli abbagli / […] cura. gli altri. dissiparsi. disarmarsi»).

E al corpo rimanda anche la riemersione continua dell’acqua, dalla «birra annacquata» di set a quella che scorre nei testi più “corporali” della sezione («l’acqua, la terra sopra i tendini»; «ansima, vapore, l’acqueo, disinfetta»), archetipo della vita ma allo stesso tempo simbolo del divenire. A sublimare le varie pulsioni della forma del fiato sta un componimento di un solo verso, dedicato appunto a una donna, cassandra, che da profetessa della sventura diventa promotrice di un’ennesima strategia amarelliana di resistenza, apparentemente divergente dalla sua poetica ma in vero perfettamente in linea con il dettato dell’Indifferenziata, e cioè l’accettazione del silenzio a dispetto dell’uso incontrollato del linguaggio: «ha fatto pace con le parole, infatti tace».

La linea, la curva rimanda all’opera di un filosofo grande e sfortunato dell’Italia anni Sessanta, Enzo Melandri, autore di un testo intitolato La linea e il circolo. Fu in quelle dense pagine che Melandri provò a sondare in lungo e in largo il concetto di “analogia”, intesa come ponte tra creatività artistica e scientifica; e fu lui, come ebbe a notare Eco, a individuare un’analogia “positiva” in quella “rivoluzionaria”, cioè in quella che non riporta al punto di partenza ma produce contraddizioni di tipo nuovo, a loro volta portatrici di nuovi scontri dialettici.

Immagino Amarelli concordi con questa considerazione, se può scrivere versi di respiro appunto dialettico come «dissimilmente identica la linea nella curva, / la curva nella linea / trasmuta, uguale, è non è / il segnale». Il ricordo melandriano si traduce in una potente analogia con l’ultima e più corposa sezione, biodegrado, che del resto si lega immediatamente al termine eletto a titolo di questi rerum candentium fragmenta. L’indifferenziata rimanda al rifiuto onnicomprensivo; è il bidone nel quale l’organico si mescola all’inorganico, e lo scarto naturale sta accanto agli ultimi elaborati artificiali. Ma è possibile azzardarne almeno un’altra lettura.

L’indifferenziata è l’irrecuperabile, e nondimeno il segno di un vivere sociale multiforme, che può diventare osservatorio subdolo eppure dagli esiti imprevedibili sulla realtà. In fondo è una spinoziana, Amarelli. Si legge nell’Etica che «Dio è causa immanente, e non transeunte, di tutte le cose»; e ciò si traduce, nell’ideologia della poetessa napoletana, in un’accoglienza totale di ciò che compone la complessità del mondo. Il biodegrado ribolle di passioni e materia («un cumulo di fotoni rutilanti e sfarzo di. onde e. fasci in paralleli e. corpuscoli. passionissime ribollite. troppi saperi») come di affondi critici che delineano la componente etico-politica da sempre agente nella produzione dell’autrice: ci parla di un «noi disfratto», evidenziando il legame inedito tra individualità e corpo sociale che, ugualmente disuniti e scomposti, coincidono proprio in questa scomposizione; ci parla dell’obbligo alla felicità nelle società opulente e moribonde, «aspettando ci regalassero / gli avanzi, mentre ci chiedevano insistenti / su cavi, satelliti, diapason impazziti / se fossimo – e perché no – felici»; ci svela, ancora, l’arcano dei «chiusi nel / se ne esci sei finito / se rimani sei morto», che è poi la nevrosi del capitalismo dalla quale non garantisce salvezza neppure lo sguardo “liminare” con cui tanto pensiero contemporaneo cerca un punto di vista obliquo («essere soglia / anche lei crolla»).

Sezione ricchissima e onnivora, insomma: e forse vale la pena sigillarla con un componimento come pulvis I., dedicato alle microparticelle che più d’ogni altro elemento ci ricordano quanto animato sia l’universo che ci circonda (ha scritto versi splendidi, su questi strani pulviscoli, un altro grande campano come Michele Sovente) mentre «tu ritieni, sciocco, / d’essere solo, di chiamarti io e invece / quanti quanti noi, coalizzati per anni e, / certo, perdenti, ma vivi di simbiosi e / di fiammelle».

Dunque ancora il collettivo, ancora soggetti e oggetti che mutano, il tutto assemblato in una lingua che aggredisce il reale con una scarica di significanti orchestrati dalla sapiente Viola. La sua pirotecnia linguistica si fonda su reiterazioni di cellule di suono che si smembrano e si ricompongono in tanti lessemi, come delle schegge che partendo da un fuoco scoppiettante si sedimentino in braci o si sparpaglino in pulviscoli di cenere.

La ricerca sulla lingua si allinea insomma a quella sulla metamorfosi che permea L’indifferenziata o, meglio ancora, ne è la formalizzazione: prova ne siano i tanti anacoluti (spesso espressioni cristallizzate ormai riutilizzabili come autonome risorse verbali, quali «a perdita di», «a fiocchi di»…) che trainano il discorso in avanti, o le commistioni di idiomi, da quelle intraversali tra napoletano e il complesso italiano di «noi ci accirimmo, con n’arrevuoto ’nu mozzico, un gocciolamento breve e continuo» agli inserti di latino e tedesco di provenienza colta – compare, tra gli altri, l’Hölderlin cantore dell’incomprensibilità.

E poi, soprattutto, le fitte trame lessicali filate con i materiali più disparati, sì che sia possibile trovare accordati tra loro nomi come esposoma, lactobacilli, catalisi o perlage. Un plurilinguismo che, come tutto nella poesia di Viola Amarelli, restituisce in un sol colpo la ricchezza e la discrasia (o la ricchezza della discrasia?) di un mondo in perenne cambiamento: «questo viaggio è alla fine / altri saranno ma lo spazio / e il tempo e noi due, diversi».

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