L’articolo che mi accingo a scrivere riguarda le Memorie Politiche di Liborio Romano, opera autobiografica conclusa nel 1866 e pubblicata postuma per la prima volta nel 1873.
Il Romano rimane tutt’oggi una figura ingiustamente dimenticata nella narrazione popolare del Risorgimento, mentre invece andrebbe conosciuta per poter avere un quadro più chiaro delle vicende unitarie, in particolare per quelle del Mezzogiorno. Chiaramente nel momento in cui ci si approccia ad un’opera autobiografica, specialmente pubblica, si devono sempre soppesare le informazioni e la narrazione forniteci proprio per tenere sempre a mente la differenza tra il vero e ciò che invece, per varie ragioni, viene taciuto o “aggiustato”.
Dopo questo breve preambolo è giunto il momento di rispondere alla domanda di partenza, chi è Liborio Romano? Costui fu un avvocato e un liberale pugliese del Regno delle Due Sicilie, nato a Patù nel 1793, anche se le Memorie posticipano di due anni la sua nascita; a causa della sua partecipazione ai moti che infiammarono l’Europa nel 1820 e (più defilatamente) in quelli del 1848, subì persecuzioni da parte di Ferdinando II, diversi anni di galera e l’esilio in Francia.
La svolta arrivò quando gli eventi unitari presero il via in maniera corposa e sotto Francesco II, figlio di Ferdinando, il nostro ricoprì varie cariche istituzionali: prima come prefetto di polizia e poi come ministro degli interni, fino all’ingresso di Garibaldi a Napoli. Dopo tale evento iniziò la seconda parte della sua carriera politica che lo portò fino al neonato parlamento italiano, dove rimase fino al 1866, un anno prima della morte, avvenuta nel 1867.
La divisione in capitoli del testo risulta intelligente, in quanto ciascuno dei sei periodi abbraccia un arco di tempo preciso, sulla base delle cariche istituzionali occupate e tale narrazione prende il via il 27 giugno 1860, giorno della sua nomina a prefetto. Per comprendere la parabola politica del patuense possiamo attuare una divisione in due tronconi: il primo si concentra sulla sua azione sotto la corona borbonica e corrisponde al primo capitolo, mentre la seconda, che troviamo nei restanti cinque capitoli, dall’ingresso di Garibaldi a Napoli arriva fino al 1865.
Nella prima sezione il Romano ci illustra l’allora condizione del proprio paese, sempre più prossimo al collasso e logorato da problemi strutturali di natura politica, sociale ed economica. Mentre l’11 maggio i Mille sbarcarono a Marsala, dando inizio alla conquista della Sicilia, l’entrata in scena del nostro avvenne dopo la promulgazione dell’Atto Sovrano del 25 giugno del 1860, con il quale il re riportò in vigore la costituzione del ’48, tentando la svolta liberale della corona. In tale situazione Romano divenne prefetto e già in quel momento fu chiara una delle sue priorità, cioè il mantenimento dell’ordine nella capitale, che ottenne tramite l’appoggio della camorra, all’epoca unica istituzione ad avere ancora effettivo potere in città, inframmezzandola ai membri della polizia cittadina.
Nelle Memorie l’autore, perfettamente consapevole delle critiche che avrebbe ricevuto, rispose «io dirò a cotesti puritani, i quali misurano con la stregua dei tempi normali i momenti di supremo pericolo, che il mio compito era quello di salvare l’ordine».
Altro punto centrale fu la sostituzione del personale della questura, che vide subentrare nuovi impiegati allineati ai nuovi principi liberali. Il 14 luglio avvenne la sua nomina a ministro dell’interno nel ministero Spinelli. In questo modo il rinnovamento degli impiegati statali si potè allargare al ministero stesso e al personale amministrativo, creando una rete che ebbe a capo il ministro pugliese e che separò la monarchia dal resto del paese. Inoltre, con l’organamento della guardia nazionale, si rafforzò anche la volontà di mantenere l’ordine nel paese, tenendo sempre al centro la sicurezza di Napoli.
In questo momento Romano entrò al centro delle trame risorgimentali. Come egli stesso riportò, infatti, intrattenne contatti con i comitati rivoluzionari dell’Ordine e dell’Azione, riferendo informazioni ai suoi colleghi di governo pur stabilendo di non perseguirli legalmente. A questo fece da contraltare la decisione di far andare in fumo i vari progetti dei due comitati, giustificando sempre tale scelta con l’intento della preservazione dell’ordine civile. In effetti il caos venne evitato e il giorno dopo la fuga di Francesco II a Gaeta vi fu l’ingresso di Garibaldi in città, evento che segnò la conclusione della spedizione dei Mille e della prima fase politica del Romano.
Ora ha inizio il secondo troncone, nel quale, a seguito delle proprie scelte, ogni possibilità di sviluppo della sua carriera politica venne meno, benché per contraltare emerse in modo molto più netto la propria idea del processo di unità nazionale.
Dopo l’ingresso del generale nizzardo, il patuense fece parte del governo della dittatura e, a seguire, della seconda luogotenenza del principe di Carignano, saltando la prima diretta dal Farini. Già nel governo dittatoriale un’istanza fondamentale del Romano fu quella di evitare che venisse distrutta l’autonomia delle province meridionali, per evitare un’unificazione fatale per i territori del sud che avrebbe portato ad applicare i regolamenti piemontesi a una società diversa per economia, struttura sociale e cultura.
Questa posizione rese Romano indigesto al governo centrale, in particolare sotto la luogotenenza del principe di Carignano, dato che il segretario generale Costantino Nigra, intimo del Cavour, mostrò una profonda avversione nei confronti del patuense, rintracciabile nelle sue epistole.
Durante tale breve esperienza non si riuscì a evitare l’applicazione dei codici sardi e, nonostante altri suoi decreti vennero accolti, dovette fermarsi di fronte ad altri ostacoli che impedirono di preservare la guardia nazionale, giudicata dal Romano non secondaria per affrontare il brigantaggio. Anche il progetto di realizzazione di altre infrastrutture, vitale per ridurre la disoccupazione e l’ingrossarsi delle file dei briganti, non fu accolto.
La luogotenenza aveva preso la forma di un prolungamento del governo torinese, concluse il Romano, e il 12 marzo 1861 diede le sue dimissioni, elencando gli errori fatti dalle autorità fino a quel momento.
Nell’ultimo periodo don Liborio entrò in Parlamento come deputato, dopo l’elezione in ben otto collegi, ma la sua nomina, pur non mancando di sostenitori, venne fin da subito avversata; nonostante le sue sempre più precarie condizioni di salute, continuò a perorare le proprie idee, sostenendo la necessità di non disperdere le forze costruttive sparse in tutta la penisola, facendo ovviamente riferimento a quelle delle ex province borboniche.
Nell’autobiografia tacque circa la sua rielezione del 1865, probabilmente per la delusione della precedente esperienza e per il peggiorare delle proprie condizioni, che gli impedirono sempre più frequentemente di essere presente in aula; mantenne la carica fino alla fine del 1866, quando si ritirò a vita privata. Concluse la stesura delle Memorie e si spense di lì a poco, a Patù nel 1867.
In conclusione, le Memorie Politiche, nonostante le criticità di un’autobiografia pubblica, come risulta dalla data di nascita errata e dal mancato approfondimento dei suoi rapporti con le forze unitarie, ci danno uno sguardo interno alle vicende meridionali in cui, se da un lato l’opera del nostro può essere facilmente giudicata doppiogiochista, dall’altro non si può non notare una chiara coerenza di fondo nei suoi obiettivi centrali: il mantenimento dell’ordine, in particolare nella realtà napoletana, con la quale intrattenne attraverso i suoi comunicati un rapporto di virtuosa collaborazione; l’idea di un’annessione rispettosa delle tradizioni locali, che avrebbe dovuto portare a un rifacimento completo degli ordinamenti dello stato, ed evitare la semplice estensione di quelle già esistenti, che non sarebbero andate a nuocere solo alle nuove acquisizioni, ma al paese nella sua interezza.