Pubblichiamo la prefazione di Renata Morresi a Nostra Signora della prima repubblica di Matteo Chiurchiù.
*
Capita a volte di ritrovare, in qualche cassetto dimenticato, pellicole di foto da rullino. Le foto stesse spesso non ci sono più, sparse, prestate, incorniciate, o incollate altrove. Rimangono, nel taschino delle buste di carta che davano i fotografi con lo sviluppo, questi negativi. Li guardiamo in controluce per capire; forse non riconosciamo le persone, ma ci orientano certi profili, certe frange dei capelli, le spalline, il piglio degli uomini o la foggia dei baffi, le forme più o meno squadrate delle automobili. Riconosciamo, dunque, gli anni, l’epoca col suo gusto e le sue urgenze, gli oggetti e le impressioni. E impressionato rimane sui negativi, ora che la materia è evaporata, un fantasma di quel tempo, un fantasma tanto familiare che sembra quasi diventare la sostanza di ciò che conoscevamo.
Diceva Cioran di soffrire di nostalgia per qualcosa che forse non era mai esistito. Mi chiedo anch’io, guardando le vecchie foto, pensando il passato, se quel che credo di sapere di allora sia poi quel che è veramente successo. Accade, lo sappiamo, con le foto personali e di famiglia: sono io quella? perché ridevo? e questo è mio padre? sembra tanto più giovane che nel mio ricordo. Accade anche con le foto pubbliche, quelle immagini stampate nella memoria collettiva (Pasolini all’Idroscalo, l’orologio fermo alle 10:25 a Bologna, la foto di Moro davanti una bandiera): è questo quel che fu? era solo così che poteva andare? e com’è che andò poi veramente? Quanto ancora non sappiamo, quanto avremmo potuto sapere, e magari cambiare, quanto c’era da dire e capire che invece è rimasto abbandonato negli archivi della storia, così come nel nostro cassetto. Non si tratta solo degli insabbiamenti italiani della “Prima Repubblica”: quelli che ancora fa vergogna pensare che nessuno ha colpa di tanti morti. È anche il misterioso andare del tempo, che sembra aver accelerato al massimo in questa prima parte del millennio, e aver perso assetto e direzione. Si fa pulviscolo, lo senti come – oggi, qui e ora, presente globalizzato, pianeta Terra confuso, galassia via Lattea – nebulizzato. È vero? Possiamo dirlo? O possono dirne veramente solo i discorsi dei poeti?
“Di più falso non c’è nulla / che il volere dire il vero”, scrisse appunto uno di loro. Anche Matteo Chiurchiù scruta visioni dal loro negativo, senza pretenderne un’immagine univoca. Di esse distinguiamo giusto alcuni cenni, pochi tratti che ci lasciano intuire in un lampo una storia sociale che ben conosciamo: le esplosioni nelle piazze, un presidente austero, le lucciole che scompaiono, il venir meno delle cortine e degli imperi… Con linee lievi e un linguaggio terso, l’autore di questo libro riesce a offrirci una filigrana di luoghi e parole, di personaggi e eventi, che ci restituisce un grado di intimità con quel tempo assai più profondo di qualche foto nitida o dichiarazione o documento.
Di colpo, ad esempio, ricordiamo che c’è stato un periodo nel secolo trascorso in cui “democrazia” non era un brand, ma un imperativo morale e una ragione di lotta; anche allora un ideale, certo, ma con la consistenza di un progetto da perseguire collettivamente. Ed ecco che “la democrazia come / una gita in corriera” compare in queste pagine come speranza tangibile, a portata di ciascuno, e insieme come realtà ingenua, viaggio fragile in cerca di rimedio nei meandri di un paese in cui resta difficile uscire dalle doppiezze. In questo scenario la voce narrante appartiene a un intermediario, lo scudiero fedele della figura di primo piano, “il presidente”. Il mediatore riceve un incarico che ricorre lungo tutto il corso del libro, un compito straordinario, che mescola etica, grazia e mistero: “proteggere discretamente / il sacerdozio dei poeti”. È uno strano faccendiere quello che si presta a tale anomala missione, un esercizio ossimorico di salvaguardia e di impotenza a fronte della progressiva perdita dei maestri e degli eroi, e dello struggimento (politico ed esistenziale) che muove il volere prendere parola: “tutti gli orfani vorrebbero un eroe / a cui somigliare, vorrebbero parlare”.
Mentre l’autore chiudeva questo libro era a capo del governo italiano un uomo nato nel 1975. È un uomo ‘giovane’, dicevamo di lui, sebbene il 1975 (che poi è l’anno in cui Pasolini è stato ucciso) sembri così remoto, così superato dal contemporaneo e dai suoi mantra martellanti. Da quel 1975 ci separano uno stravolgimento più profondo del passare degli anni e una ulteriore mutazione antropologica: dopo la resa, ormai quasi totalizzante, al consumismo, sembriamo a poco a poco diventati capaci di rinunciare anche alla giustizia, per barattarla in cambio di una parvenza di sicurezza, della stabilità, della gratificazione immediata. Il 1975 è anche l’anno dei famosi articoli sulle lucciole e sul genocidio. È poi così lontano questo passato? Di certo non è estraneo:
il passato lotta e ha lottato contro di noi,
nostra Signora della prima repubblica
dai sagrati della chiesa
del dopoguerra e dei suoi figli
preserva il sacerdozio dei poeti
preserva gli invisibili
Il tentativo di proteggere i poeti si intreccia agli incontri, alle aspirazioni, agli studi della vita. È la vita, a me sembra, di un bambino, di un ragazzo, di un giovane uomo, che dagli oratori estivi delle prime pagine passa a muoversi tra le aule universitarie, alla ricerca di ciò che è saldo, tra le strade appassionate di giustizia e le riflessioni sulla relazione tra vita e giudizio, tra gli stupori di uno sguardo poetico e le pressioni del quotidiano. Se quella del potere e della politica non è, come diceva inesorabile Sciascia, che una “labile ragnatela”, figuriamoci la vita del singolo, trama ancora più aleatoria. Chiurchiù rifugge dal sentimentalismo e dalla confessione, eppure, anche qui, riesce a mettere in scena figure, vibrazioni e attese, che sembrano sfiorare l’esistenza di chi legge come incontri pulsanti, come eventi materiali.
Questa scrittura rada, che ha molte pause, lascia molti spazi bianchi, segue il ritmo degli anni e dei colloqui, oppone al grande rumore bianco che fa il mondo la necessità (la cura, direi) del frammento. Come una particella di pulviscolo, nel suo andamento imprevisto, esso cade sulla pagina, si deposita con discrezione, è seguito da un altro. È una disciplina delicata e ardua questo tenere insieme i frammenti, difenderli senza sciuparli, ché ci aiutino a pensare e a ripensarci. Così chi scrive tenta di di-spiegare il tempo, di ordinarlo come orizzonte di senso pur accettandone l’opacità, l’incompletezza, la contraddizione:
tutta una stagione
contro l’idolatria dello stato
non si può essere insieme
mostro naturale
e bellezza del volto
qualcosa di Dio
deve riparare nel nulla
deve nascondersi
l’amore
nell’ombra
Vorrei che anche tu che leggi, vedessi quel che prende forma tra questi versi.