«Veràs que te convertiràs en una hermosa sirena», dice mia madre tempestandomi i ricci con l’asciugamano. Sto seduta sulla panca umida, attenta a non toccare terra coi piedi scalzi. La palude putrida dello spogliatoio è senza ritorno. A chiunque la sfiori si squama la pelle.
«Mami, io sono una fata della luce! Non una sirena». Gliel’avrò detto un milione di volte. Alzo gli occhi al cielo e prendo il portachiavi a forma di stella fuxia che penzola dalla tasca del cappotto appeso. Lo premo e quello brilla. L’odore di cloro della piscina mi punge ancora la lingua, mentre sento il potere pervadermi.
Le mie compagne di scuola vendevano il portachiavi stellato assieme a un mucchio di cianfrusaglie. Tutti compravano i loro braccialetti di perline di plastica o qualche scooby doo intrecciato.
«No, quelle non le puoi prendere», mi ha detto Cinzia indicando delle mollettine colorate. «Con quei capelli ci vuole un miracolo!», Cinzia ha sollevato solo un fianco della bocca, guardando le altre alle sue spalle. Un coro di risolini. «Morite!», ho risposto io.
«Chanel! Se ti sento dire ancora una volta una cosa del genere…», ha detto la maestra. Tanto non finisce mai la frase. Quando Cinzia se n’è andata sono tornata al banchetto di beneficenza e ho comprato il portachiavi luminescente insieme al glitter rosa.
Dalla finestra aperta dello spogliatoio si sente suonare un clacson. «Ahi, Giuseppe!», fa mamma sottovoce. Giuseppe raglia come un asino quando aspetta fuori in macchina. Ogni volta mamma gli dice «ma devi proprio suonare davanti a todos?», e ogni volta lui «Iiih-oooh». Mamma e Giuseppe si sono sposati a Cuba, un anno prima di trasferirci in Italia. A Trinidad le nuvole sono sbuffi di piume che le oche hanno perso in volo, a Passignano sul Trasimeno solo pioggia, dice Giuseppe.
Mentre nessuno guarda, acquattata sul sedile posteriore, estraggo il glitter rosa dallo zaino. Nell’altra mano l’amuleto a forma di stella. Intingo l’indice fra i luccichini e me lo spalmo sulla palpebra scura. Un lampo di luce colpisce il retro della Peugeot. Le foglie dei platani lungo la strada danzano il Ritorno della Principessa delle Fate.
«Ragazzi, sono tornata!», sussurro. Devo concentrarmi, mi dico, strizzo gli occhi, ma tra i pensieri riecheggia solo il gracidio della radio. Giuseppe parcheggia e io scivolo fuori dall’auto. Il vento elettrizzato porta odore di pioggia. Corro all’Oliveto, il lago è increspato, il molo ha perso tre assi, accatastate lì accanto. China sul tracciato di sassi che io e Dario abbiamo disegnato lo scorso martedì sul prato, guardo l’acqua increspata del lago: non si dà pace, bolle e ribolle cercando rimedio alla gravità, lago spaziale. Non volano uccelli.
Quel martedì il sole sgranava le foglie settembrine nel loro ultimo canto, le rondini si fiondavano sul pelo dell’acqua affamate tra i cormorani ululanti. La grande parata aveva preso luogo fra quel frastuono. «Oh, il lampo di luce, laggiù!», si era accorto Dario, indicando l’altra sponda dove un raggio rosa si strecciava al cielo. «Stanno arrivando!» Abbiamo posizionato il trono fatato alla fine del sentiero di sassi, i cardi secchi pungevano i polpacci. La gente del bosco sfilava davanti a noi portando fagotti di foglie con rami e pietre e petali e terra.
«Oh, guarda chi c’è, la travona!», era arrivato Andrea insieme ad Angelo.
«Che cazzo vuoi? Muori», gli avevo detto.
I risolini dei due mi accendevano un fuoco nella pancia. «Oh, stai calma eh!»
«S’è messa pure il trucco. Cazzo sembravi un uomo, adesso almeno sembri una travona. Ma ce l’hai il pisello?», aveva detto Angelo compiaciuto.
«Dario te la scopi così, vero?»
Avevo preso un sasso vicino al mio piede e gliel’avevo lanciato contro senza prendere la mira. «Aaaah», avevo urlato.
Quelli ridevano di più, «Sei pazza!»
Dario non diceva niente, solo «Chanel, non urlare». Io li stavo maledicendo, che il potere delle fate gli prendesse i capelli uno ad uno e li strappasse via con lo scalpo. Invece, mi sfregavo il glitter dagli occhi, la parata era finita.
Angelo faceva girare nell’aria una corda, ne aveva passato un’estremità ad Andrea. «Giocate alle fate? Dario, ma allora sei proprio frocio».
«Dai, basta, andate via», aveva detto Dario.
I due bambini si erano disposti ai miei lati con la corda tesa davanti a me, il lago dietro. «Vaffanculo, andate a fanculo!», gli avevo urlato. La corda mi si era stretta addosso. Io tiravo calci e avevo urlato cadendo a terra. Stringendo il portachiavi a stella nella mano, avevo iniziato a sputare addosso a quei mocciosi schifosi: che il veleno acido del drago gli squagliasse la faccia. Mentre Andrea continuava a girarmi intorno con la corda, avevo visto Angelo sobbalzare. Dario, dietro di lui, l’aveva spinto. Angelo aveva perso il sorriso, si era girato sgranando gli occhi e aveva tirato un pugno, che Dario aveva schivato. Angelo era caduto senza riuscire a ripararsi la faccia. Il mento era graffiato. Andrea, dimentico della corda, aveva tirato una manata a Dario, stavolta in pieno. Alcuni genitori si erano affacciati all’Oliveto. Io avevo preso una pietra, l’avevo tirata in testa ad Andrea, che aveva iniziato a piangere.
Sono andata a trovare Dario l’altro ieri, la sua mano fantasmata aveva aperto la finestra dietro il vetro di nubi riflesse. Sporgeva solo la testa. La mamma non lo faceva uscire, allora gli avevo lanciato il talismano a stella, che se lo preme brilla e gli cura l’occhio. Avevamo faticato un po’ a passarcelo fino al secondo piano. Dario l’aveva fatto schiantare per terra, ma quello è di gomma, anche se cade funziona lo stesso, gli avevo detto.
I capelli mi finiscono in bocca inumiditi dalla pioggiolina e io li sputo fuori. Il talismano non serve a niente, l’occhio di Dario è ancora gonfio e le fate non si fanno vedere. Sono sola all’Oliveto, io e il lago bollente. Guardo le tracce di glitter sulle mie dita, i brillantini al cupo di questo cielo non luccicano. Non sarò mai una Fata della Luce, né una sirena, né una travona. Strizzo la stella rosa tra le dita, che prende a illuminarsi, non sopporto quella luce falsa, finta. Scaglio l’oggetto di plastica qualunque davanti a me, finisce sulla riva. L’acqua lo lambisce e lo attrae, finché la stella prende a cavalcare l’onda successiva. Mentre quella naviga lentamente, salgo sul molo, la vedo passare tra il vuoto delle assi, l’acqua sbuffa e spruzza sotto il legno. Corro al bordo del molo, devo riprendere la stella ma non arrivo al pelo dell’acqua, così mi butto.
L’acqua è fredda, i miei piedi friggono. Emergo ma non vedo più l’amuleto. «Chanel! Chanel!», sento il mio nome tra le folate. Un’onda mi colpisce e io rotolo, sotto sopra di lato. I capelli si spargono attorno a me, qualcosa mi tocca le caviglie, le trattiene. Apro gli occhi, l’odore d’alghe in bocca mi ricorda quello del cloro. Avrei dovuto essere una sirena, come diceva mamma. Sopra di me, alla luce grigia, solo i lampi viola del portachiavi a forma di stella fuxia.